Visioni - La smaterializzazione dell'Arte, 1996

Animazione fotografica interattiva: 12 computer, 1 retroproiezione, 1 tavolo di controllo
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Giorgio De Marchis, Visioni, in 23ª Bienal Internacional São Paulo (cat.), Fundação Bienal de São Paulo, São Paulo

In tema di smaterializzazione dell’arte, che è il tema della 23ª Biennale internazionale d’arte di San Paolo per la quale è stato selezionato Umberto Cavenago, non si può non ricordare che proprio alla Biennale del 1959 Lucio Fontana esponeva i suoi primi «tagli», tele monocrome in cui, impugnando una lama, l’artista produceva con un gesto rapido e secco una o due fenditure verticali o oblique. Era un aprire nello schermo bidimensionale della tela, supporto tradizionale della pittura, un varco che andava al di là, con un atto che non produceva più un oggetto d’arte, bensì, distruggendone o abolendone le premesse, si costituiva come principio di una nuova esperienza conoscitiva, tutta mentale.

La stessa istantaneità del gesto di rottura della superficie sembrava corrispondere alla istantaneità del pensiero. L’opera di Fontana, di cui non vanno dimenticati i precedenti giovanili nell’ambito futurista, è stata un contributo importante a quel concettualismo e a quello sperimentalismo che hanno dominato nell’arte italiana ed europea per più di tre decenni, malgrado rigurgiti anacronistici favoriti da una critica dispeptica. Che in Italia abbiano dato frutti notevoli mi pare un fatto fondato su una tra- dizione molto antica se già Leonardo, nel cui pensiero convivevano la speculazione scientifica e quella artistica, asseriva: «la pittura è cosa mentale». 

Nelle pareti longitudinali dello stesso spazio sono inseriti altri otto schermi di computer, quattro per parte, con immagini statiche di scenari urbani quotidiani, che sono fotogrammi isolati tratti dalle videoriprese contenute sul tavolo di ingresso. Tutte le immagini, sia quelle delle videoproiezioni che quelle statiche, sono associate alla registrazione dei suoni propri dei luoghi al momento della ripresa. Questa doppia serie di immagini statiche si presenta un po’ come una mostra di fotografie. Ma in alcuni punti di ciascuna immagine, rilevati da un leggero tremolìo, il visitatore se vuole o se è attirato dalla curiosità può intervenire appoggiandovi la mano, toccandoli, col risultato di cancellare anzi di far sparire, senza che resti traccia o una lacuna, alcuni degli elementi dell’immagine: un monumento, un oggetto architettonico, un arredo urbano. L’immagine risulta modificata per sottrazione ma non diminuita, anzi acquista un nuovo senso e questa è la «visione» cui fa riferimento il titolo. Cancellare quello che non vogliamo, modificando nei suoi ingredienti costitutivi lo scenario quotidiano, permette di immaginare uno scenario diversamente caratterizzato.

Il computer come strumento di visioni: toccate e smaterializzate.

Se si pensa che Cavenago vive a Milano, lavora a Milano, si sposta dentro Milano, attraverso strade e piazze che negli ultimi trent’anni sono state deturpate dai più orrendi e inutili arredi urbani, si capisce bene come questa smaterializzazione informatica gli offra il pretesto per immaginare e comunicare uno scenario quotidiano nuovo e più «leggero»: appunto una «visione».

Umberto Cavenago, che abbiamo scelto per rappresentare l’Italia alla Biennale del 1996, è un artista della nuova generazione italiana, laureato in architettura e rapidamente affermatosi anche in campo internazionale come scultore. Ma è anche un entusiasta dell’informatica di cui sa tutto e con cui fa tutto.

L’opera espressamente realizzata per la Biennale di San Paolo è intitolata Visioni e sottotitolata con una frase di William Blake: «Tutti gli uomini sono capaci di sognare e di avere visioni». Consiste in uno spazio praticabile oscuro al cui ingresso un tavolo, che rappresenta il luogo del pensiero e del progetto, porta inserito sulla superficie piana orizzontale uno schermo di computer che occupa il posto in cui sarebbe appoggiato un foglio di carta per scrivere o disegnare. Sullo schermo appare un’immagine composita, cioè un insieme di immagini grandi come francobolli che sono i fotogrammi iniziali di videoriprese eseguite in condizioni di mobilità e di mutamento in vari luoghi e occasioni personali di Cavenago stesso e lasciate come successioni di frammenti senza montaggio. Lo stesso insieme di immagini appare ingrandito su un grande schermo posto sulla parete di fronte. Appoggiando la mano, cioè toccando l’una o l’altra delle immagini che appaiono sul piano del tavolo, il visitatore mette in moto la proiezione della relativa videoripresa, che apparirà anche ingrandita sullo schermo frontale. In tal modo, quello che il singolo visitatore mette in moto col gesto privato della sua azione su tavolo diviene pubblico per gli altri visitatori nella proiezione sul grande schermo di fondo. I luoghi di Cavenago, a scelta, si popolano di visitatori.

Partito Preso alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma

Nell’ambito di una iniziativa promossa dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma dal titolo Partito Preso in cui si presentano opere di giovani artisti, Umberto Cavenago ha esposto il lavoro: Visioni.
L’opera è una anticipazione di un progetto assai più ampio che l’artista, invitato dalla stesso museo romano a rappresentare l’Italia alla 23ª Biennale di San Paolo del Brasile, ha elaborato sul tema proposto quest’anno: “la smaterializzazione dell’arte alla fine del millennio”. 

Insofferenza e paesaggio urbano

L’opera di Cavenago scaturisce dalla constatazione di un fallimento avvenuto: quello rappresentato dalla scultura posta in relazione ad un paesaggio aperto.
Una problematica divenuta da qualche tempo di primaria importanza per questo artista che avverte l’inadeguatezza dei modi tradizionali nei confronti di una realtà profondamente mutata, Un milione di posti di lavoro (1995) e Leon (1996) sono opere realizzate in spazi aperti e che considerano la funzione della scultura in relazione alla natura ed in cui si fa forte l’esigenza di recuperare un ruolo dell’arte ed una sua più profonda ragione d’essere. Soprattutto nel caso di Un milione di posti di lavoro, definita dall’artista stesso un “irrigatore a pedali per coltivazioni intensive” è evidente la volontà di abbandonare completamente il concetto di tradizione alta dell’arte e di riportare la scultura ad una dimensione più umile e concreta.
Il lavoro consiste infatti in una bicicletta collegata ad un sistema di irrigazione che dà la possibilità, una volta saliti sulla bicicletta e cominciato a pedalare, di innaffiare il terreno che si percorre.
Una scultura quindi “utile”, con una funzione sociale e che crea una possibilità di scambio tra reale e immaginario.
Nel passato la scultura all’aperto è sempre stata di tipo religioso o celebrativo mentre nel presente il linguaggio usato rimane di tipo esclusivamente formale. Con il risultato che quello che vediamo sono opere che non tengono alcun conto del paesaggio che le circonda che si caratterizzano per il loro aspetto artificioso e che vengono vissute, da chi poi con questi lavori deve conviverci, come vere e proprie presenze. Dall’insofferenza per questo tipo obsoleto di rapportarsi con il mondo esterno nasce il desiderio di Cavenago di attuare un cambiamento drastico e trovare una più adeguata corrispondenza con le istanze del reale.

Visioni consiste in una serie di immagini digitalizzate che rappresentano dei paesaggi urbani in cui sono visibili delle sculture realizzate tra il XIX e il XX secolo.
All’osservatore viene data la possibilità di alterare tali immagini e il modo per farlo consiste nel porre, attraverso l’uso di un mouse, il puntatore che compare sullo schermo del computer esattamente su una delle sculture riprodotte e fare “clic”. Grazie a questa semplice azione assisteremo alla dematerializzazione virtuale. Le sculture lentamente scompariranno e quello che alla fine rimane è la visione dello spazio dove queste erano inserite così come doveva essere prima dell’intervento artistico. In questo modo Cavenago sembra aver preso alla lettera la problematica della “dematerializzazione” suggerita dalla Biennale di San Paolo portando alle estreme conseguenze il concetto e attuando un gesto radicale: quello di rendere visibile in modo paradossale e ironico l’attuarsi (seppure soltanto virtualmente) di una vera e propria soppressione.
Puntando la freccia sulle opere e interagendo con il computer diventiamo complici di un piano terroristico, vivendo nello stesso tempo un momento di grande liberazione. Una dopo l’altra, sculture dalla pompa monumentale ottocentesca, oppure quelle più moderne dall’aspetto terribilmente pretenzioso, scompaiono davanti ai nostri occhi e lasciano il posto ad uno spazio che riconquista la sua conformazione originaria.
Visioni è un lavoro dissacratorio che allegramente smantella un processo mentale a cui si è assuefatti e della cui inadeguatezza soltanto pochi artisti sembrano cominciare a rendersi conto. Posto all’interno di un Museo, la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, la cui architettura ingombrante e trionfalistica rappresenta di per sé un esempio di monumentalismo spinto agli eccessi, l’opera dell’artista milanese, costituisce concettualmente un vero e proprio attentato a tutto ciò che lo circonda ed obbliga ad una revisione totale della ricerca espressiva. Osservando scomparire le sculture siamo pervasi da un sottile piacere che ci spinge in modo irrefrenabile a oltrepassare il nostro limite di sopportazione e a rimettere in discussione tutti i nostri concetti riguardanti committenza privata e pubblica, arte e politica, scultura e territorio.

Antonella Soldaini, 1996

Modellazione tridimensionale dello spazio espositivo

Visioni - La smaterializzazione dell'Arte, 1996

Animazione fotografica interattiva: 12 computer, 1 retroproiezione, 1 tavolo di controllo
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Giorgio De Marchis, Visioni, in 23ª Bienal Internacional São Paulo (cat.), Fundação Bienal de São Paulo, São Paulo

In tema di smaterializzazione dell’arte, che è il tema della 23ª Biennale internazionale d’arte di San Paolo per la quale è stato selezionato Umberto Cavenago, non si può non ricordare che proprio alla Biennale del 1959 Lucio Fontana esponeva i suoi primi «tagli», tele monocrome in cui, impugnando una lama, l’artista produceva con un gesto rapido e secco una o due fenditure verticali o oblique. Era un aprire nello schermo bidimensionale della tela, supporto tradizionale della pittura, un varco che andava al di là, con un atto che non produceva più un oggetto d’arte, bensì, distruggendone o abolendone le premesse, si costituiva come principio di una nuova esperienza conoscitiva, tutta mentale.

La stessa istantaneità del gesto di rottura della superficie sembrava corrispondere alla istantaneità del pensiero. L’opera di Fontana, di cui non vanno dimenticati i precedenti giovanili nell’ambito futurista, è stata un contributo importante a quel concettualismo e a quello sperimentalismo che hanno dominato nell’arte italiana ed europea per più di tre decenni, malgrado rigurgiti anacronistici favoriti da una critica dispeptica. Che in Italia abbiano dato frutti notevoli mi pare un fatto fondato su una tra- dizione molto antica se già Leonardo, nel cui pensiero convivevano la speculazione scientifica e quella artistica, asseriva: «la pittura è cosa mentale». 

Nelle pareti longitudinali dello stesso spazio sono inseriti altri otto schermi di computer, quattro per parte, con immagini statiche di scenari urbani quotidiani, che sono fotogrammi isolati tratti dalle videoriprese contenute sul tavolo di ingresso. Tutte le immagini, sia quelle delle videoproiezioni che quelle statiche, sono associate alla registrazione dei suoni propri dei luoghi al momento della ripresa. Questa doppia serie di immagini statiche si presenta un po’ come una mostra di fotografie. Ma in alcuni punti di ciascuna immagine, rilevati da un leggero tremolìo, il visitatore se vuole o se è attirato dalla curiosità può intervenire appoggiandovi la mano, toccandoli, col risultato di cancellare anzi di far sparire, senza che resti traccia o una lacuna, alcuni degli elementi dell’immagine: un monumento, un oggetto architettonico, un arredo urbano. L’immagine risulta modificata per sottrazione ma non diminuita, anzi acquista un nuovo senso e questa è la «visione» cui fa riferimento il titolo. Cancellare quello che non vogliamo, modificando nei suoi ingredienti costitutivi lo scenario quotidiano, permette di immaginare uno scenario diversamente caratterizzato.

Il computer come strumento di visioni: toccate e smaterializzate.

Se si pensa che Cavenago vive a Milano, lavora a Milano, si sposta dentro Milano, attraverso strade e piazze che negli ultimi trent’anni sono state deturpate dai più orrendi e inutili arredi urbani, si capisce bene come questa smaterializzazione informatica gli offra il pretesto per immaginare e comunicare uno scenario quotidiano nuovo e più «leggero»: appunto una «visione».

Umberto Cavenago, che abbiamo scelto per rappresentare l’Italia alla Biennale del 1996, è un artista della nuova generazione italiana, laureato in architettura e rapidamente affermatosi anche in campo internazionale come scultore. Ma è anche un entusiasta dell’informatica di cui sa tutto e con cui fa tutto.

L’opera espressamente realizzata per la Biennale di San Paolo è intitolata Visioni e sottotitolata con una frase di William Blake: «Tutti gli uomini sono capaci di sognare e di avere visioni». Consiste in uno spazio praticabile oscuro al cui ingresso un tavolo, che rappresenta il luogo del pensiero e del progetto, porta inserito sulla superficie piana orizzontale uno schermo di computer che occupa il posto in cui sarebbe appoggiato un foglio di carta per scrivere o disegnare. Sullo schermo appare un’immagine composita, cioè un insieme di immagini grandi come francobolli che sono i fotogrammi iniziali di videoriprese eseguite in condizioni di mobilità e di mutamento in vari luoghi e occasioni personali di Cavenago stesso e lasciate come successioni di frammenti senza montaggio. Lo stesso insieme di immagini appare ingrandito su un grande schermo posto sulla parete di fronte. Appoggiando la mano, cioè toccando l’una o l’altra delle immagini che appaiono sul piano del tavolo, il visitatore mette in moto la proiezione della relativa videoripresa, che apparirà anche ingrandita sullo schermo frontale. In tal modo, quello che il singolo visitatore mette in moto col gesto privato della sua azione su tavolo diviene pubblico per gli altri visitatori nella proiezione sul grande schermo di fondo. I luoghi di Cavenago, a scelta, si popolano di visitatori.

Partito Preso alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma

Nell’ambito di una iniziativa promossa dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma dal titolo Partito Preso in cui si presentano opere di giovani artisti, Umberto Cavenago ha esposto il lavoro: Visioni.
L’opera è una anticipazione di un progetto assai più ampio che l’artista, invitato dalla stesso museo romano a rappresentare l’Italia alla 23ª Biennale di San Paolo del Brasile, ha elaborato sul tema proposto quest’anno: “la smaterializzazione dell’arte alla fine del millennio”. 

Insofferenza e paesaggio urbano

L’opera di Cavenago scaturisce dalla constatazione di un fallimento avvenuto: quello rappresentato dalla scultura posta in relazione ad un paesaggio aperto.
Una problematica divenuta da qualche tempo di primaria importanza per questo artista che avverte l’inadeguatezza dei modi tradizionali nei confronti di una realtà profondamente mutata, Un milione di posti di lavoro (1995) e Leon (1996) sono opere realizzate in spazi aperti e che considerano la funzione della scultura in relazione alla natura ed in cui si fa forte l’esigenza di recuperare un ruolo dell’arte ed una sua più profonda ragione d’essere. Soprattutto nel caso di Un milione di posti di lavoro, definita dall’artista stesso un “irrigatore a pedali per coltivazioni intensive” è evidente la volontà di abbandonare completamente il concetto di tradizione alta dell’arte e di riportare la scultura ad una dimensione più umile e concreta.
Il lavoro consiste infatti in una bicicletta collegata ad un sistema di irrigazione che dà la possibilità, una volta saliti sulla bicicletta e cominciato a pedalare, di innaffiare il terreno che si percorre.
Una scultura quindi “utile”, con una funzione sociale e che crea una possibilità di scambio tra reale e immaginario.
Nel passato la scultura all’aperto è sempre stata di tipo religioso o celebrativo mentre nel presente il linguaggio usato rimane di tipo esclusivamente formale. Con il risultato che quello che vediamo sono opere che non tengono alcun conto del paesaggio che le circonda che si caratterizzano per il loro aspetto artificioso e che vengono vissute, da chi poi con questi lavori deve conviverci, come vere e proprie presenze. Dall’insofferenza per questo tipo obsoleto di rapportarsi con il mondo esterno nasce il desiderio di Cavenago di attuare un cambiamento drastico e trovare una più adeguata corrispondenza con le istanze del reale.

Visioni consiste in una serie di immagini digitalizzate che rappresentano dei paesaggi urbani in cui sono visibili delle sculture realizzate tra il XIX e il XX secolo.
All’osservatore viene data la possibilità di alterare tali immagini e il modo per farlo consiste nel porre, attraverso l’uso di un mouse, il puntatore che compare sullo schermo del computer esattamente su una delle sculture riprodotte e fare “clic”. Grazie a questa semplice azione assisteremo alla dematerializzazione virtuale. Le sculture lentamente scompariranno e quello che alla fine rimane è la visione dello spazio dove queste erano inserite così come doveva essere prima dell’intervento artistico. In questo modo Cavenago sembra aver preso alla lettera la problematica della “dematerializzazione” suggerita dalla Biennale di San Paolo portando alle estreme conseguenze il concetto e attuando un gesto radicale: quello di rendere visibile in modo paradossale e ironico l’attuarsi (seppure soltanto virtualmente) di una vera e propria soppressione.
Puntando la freccia sulle opere e interagendo con il computer diventiamo complici di un piano terroristico, vivendo nello stesso tempo un momento di grande liberazione. Una dopo l’altra, sculture dalla pompa monumentale ottocentesca, oppure quelle più moderne dall’aspetto terribilmente pretenzioso, scompaiono davanti ai nostri occhi e lasciano il posto ad uno spazio che riconquista la sua conformazione originaria.
Visioni è un lavoro dissacratorio che allegramente smantella un processo mentale a cui si è assuefatti e della cui inadeguatezza soltanto pochi artisti sembrano cominciare a rendersi conto. Posto all’interno di un Museo, la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, la cui architettura ingombrante e trionfalistica rappresenta di per sé un esempio di monumentalismo spinto agli eccessi, l’opera dell’artista milanese, costituisce concettualmente un vero e proprio attentato a tutto ciò che lo circonda ed obbliga ad una revisione totale della ricerca espressiva. Osservando scomparire le sculture siamo pervasi da un sottile piacere che ci spinge in modo irrefrenabile a oltrepassare il nostro limite di sopportazione e a rimettere in discussione tutti i nostri concetti riguardanti committenza privata e pubblica, arte e politica, scultura e territorio.

Antonella Soldaini, 1996