Una macchina concettuale al Martin-Gropius-Bau
Nel 1991, in una Berlino ancora attraversata dalle tensioni della riunificazione, Umberto Cavenago realizza un’opera che si inserisce nello spazio non come decorazione ma come azione, come gesto che riscrive le coordinate del luogo e ne interroga le fondamenta. La sala assegnata all’artista si trasforma in un colonnato: una sequenza di elementi verticali, alti sei metri, rigorosamente disposti lungo l’asse est-ovest, a rievocare e problematizzare l’asse stesso della città spezzata.
Le forme sono familiari, evocano la grammatica dell’architettura, il linguaggio del potere e della stabilità. Ma lo sguardo, scivolando verso il basso, scopre la dissonanza: ogni colonna poggia su quattro ruote. Il fondamento si sposta, la certezza vacilla. Questi pilastri non sostengono, non fondano, non stabilizzano. Esistono in una condizione potenziale di movimento, in uno stato di sospensione tra l’esserci e l’andarsene. La scultura si fa paradosso: monumentale e mobile, presente e provvisoria.
Cavenago non costruisce un’architettura, ma la sua parodia critica. Non erige un monumento, ma ne insinua il dubbio. Il suo intervento agisce come una macchina concettuale che disattiva la retorica della monumentalità e la trasforma in qualcosa di inquieto, reversibile, vulnerabile. L’opera non impone una visione, ma apre uno spazio mentale, una soglia interpretativa in cui il peso della storia si alleggerisce, scorre, si mette in discussione.
In I pilastri di Berlino, la scultura si fa struttura linguistica e dispositivo di riflessione: una presenza che non domina lo spazio ma lo attraversa, lo scompone, lo destabilizza. Un’opera che non si limita a rappresentare la condizione post-muro, ma la incarna nella propria forma: verticale ma non ferma, solida ma non fissa, carica di memoria ma proiettata nel possibile.
Social
Contatti
umberto@cavenago.info